ll XLVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche si aprirà sabato 8 maggio, con l’Aiace di Sofocle, per la regia di Daniele Salvo, con Maurizio Donadoni nel ruolo del protagonista; domenica 9 maggio sarà la volta di Fedra (Ippolito portatore di corone) di Euripide, per la regia di Carmelo Rifici, con Elisabetta Pozzi nel ruolo di Fedra. I due drammi saranno rappresentati a giorni alterni fino al 20 giugno 2010.
Con l’immagine di una Medea potente e per certi versi insondabile, di un Edipo che si appropria del suo destino senza tuttavia svelarne l’ultimo enigma ai suoi discendenti, si concludeva la stagione Inda 2009, con un epilogo sulla natura misteriosa, inafferrabile, della vita e della morte. L’irrazionale che irrompe nella esistenza umana, temuto perché incontrollabile nel suo potere di devastazione, diviene il filo conduttore del XLVI Ciclo di Spettacoli Classici che porta sulla scena del Teatro Greco di Siracusa due personaggi immensi: Aiace e Fedra.
Scritto probabilmente intorno al 450 a.C. (la datazione è incerta), l’Aiace ha come protagonista l’eroe omerico che di quel mondo arcaico mantiene intatti la forza, il carattere, il sistema di valori. Soprattutto, quella collera incontrollabile che lo porta a desiderare lo sterminio dei Greci quando, a vantaggio di Ulisse, lo privano delle armi del defunto Achille, di cui si considera a pieno titolo l’erede. Aiace crede di sterminare i suoi compagni, li guarda in faccia mentre li tortura dentro la sua tenda non sapendo di aver ucciso bestiame al loro posto, grazie all’intervento di Atena che lo confonde con immagini false e illusorie: la violenza efferata di Aiace si mescola alla “follia” instillata dalla dea culminando, dopo il “risveglio” alla realtà, nell’unico esito possibile agli occhi dell’eroe, il suicidio. Ed è questo lo stesso destino di Fedra, che nutre per il figliastro Ippolito una insana, terribile passione suscitata in lei da Afrodite, un eros concepito come forza che atterrisce perché in grado di trascinare l’uomo in un baratro di dolore. Ma questo destino di “amore e morte”, di nozze illecite apparentemente provocato da un intervento esterno, divino, è in qualche modo come una malattia genetica di Fedra, che ricorda, parlando con la nutrice, la madre Pasifae, colpevole dell’amore bestiale per il toro (da cui generò il Minotauro) e Arianna, la sorella amata da Dioniso.
Questo dramma fu rappresentato nel 428. La tragedia è da considerarsi a tutti gli effetti una Fedra, perché l’indimenticabile figura femminile ne è protagonista indiscussa, sebbene la titolazione tramandata riporti Ippolito portatore di corone, con un epiteto distintivo rispetto a una precedente versione. Ma questa “Fedra” euripidea – destinata ad incidere profondamente nel teatro e nella letteratura occidentale attraverso numerose “versioni” (Seneca, Racine, D’Annunzio, Ritsos, Cvetaeva…) – è essa stessa una riscrittura, concepita dal drammaturgo a seguito di un Ippolito velato che sembra non avesse riscosso l’approvazione degli spettatori ateniesi per l’immoralità di Fedra e delle sue proposte dirette e sfrenate al figliastro (che per questo si copriva il viso inorridito, da cui l’epiteto “velato”). La seconda versione, con cui Euripide vinse l’agone drammatico, testimonia dunque, in qualche misura, un dialogo tra il drammaturgo e la città, e trasforma il vincolo in occasione divenendo un “capolavoro della reticenza” proprio nell’episodio in cui Fedra confessa i suoi sentimenti alla nutrice. Paradossalmente, Fedra ed Ippolito non si incontrano mai, se non attraverso questo terzo personaggio che assume una funzione drammatica e uno spessore straordinariamente importante, shakespeariano ante litteram.
In questi drammi la follia non si manifesta semplicemente come una malattia che si espande e porta alla morte; non avrebbe lo stesso potere di annientare i protagonisti se non si unisse ad un altro elemento, ad un secondo leit motiv che li attraversa, pur in modo diverso: la vergogna, il pudore, il rapporto con la comunità che ne misura costantemente gli sguardi e l’opinione. E lo fa a tal punto da compensare l’onore irrimediabilmente perduto con il gesto estremo del suicidio: la vergogna supera la colpa. Fedra e Aiace lasciano rispettivamente la scena circa a metà della tragedia (Aiace al verso 632; Fedra al verso 731), ma il loro potere di influenza, la loro centralità nell’architettura del dramma rimane immutata, se non persino amplificata. Così, la reticente Fedra, che ancora nel dialogo con la nutrice sembra ferma nel proposito di non fare dilagare la passione che la invade, finirà con l’esprimere, attraverso la vendetta, lo stesso lato oscuro e potente che la accomuna ad un’altra donna, come lei di stirpe solare, Medea. E, ancora, come nelle Trachinie di Sofocle “i morti uccidono i vivi” (lì è il filtro con il sangue donato dal centauro morente, qui la lettera ingannevole della regina suicida); tuttavia, diversamente da Deianira perché estremamente lucida nella decisione, Fedra annienta volutamente l’oggetto del suo desiderio. Una rete di rimandi e rispecchiamenti, di antitesi e citazioni, ora velate ora esplicite, lega questi capolavori del teatro antico.
Allo stesso modo, la seconda parte dell’Aiace prelude al grande tema che diventerà centrale in Antigone: il dibattito sulla sepoltura che qui contrappone la philia di Teucro nei confronti del fratello defunto al veto dell’Autorità (Agamennone e Menelao) contro il traditore, perché rimanga insepolto. Ma nell’Aiace il conflitto ha un esito diverso rispetto all’Antigone, grazie all’intervento di Ulisse che, con il suo invito alla misura nei sentimenti e al rispetto dei vivi come dei morti, sembra esprimere un monito esplicitamente rivolto a chi guida la città. C’è in lui una profonda forma di saggezza che è insieme dote politica e conquista interiore, da cui tuttavia emerge la “malinconica consapevolezza” di chi nell’avversario sconfitto riesce a specchiarsi, vedendo in lui la fragilità della condizione umana.
(05 maggio 2010)