Martedì 26 febbraio alle 11, nell'aula 268 del Monastero dei Benedettini, i docenti Agnese Amaduri e Giuseppe Palazzolo terranno due seminari di Letteratura italiana.
La poetessa patavina Gaspara Stampa (1525 ca-1554) lega il suo nome a un canzoniere pubblicato postumo che si sviluppa soprattutto intorno all’infelice amore per il nobile Collaltino di Collalto. In effetti, la donna dedicò almeno una decina di anni alla scrittura delle sue liriche, forse auspicando che grazie a esse avrebbe acquistato una certa fama oltre i confini della città di Venezia, in cui viveva ed era nota come virtuosa. Tuttavia, a lungo le Rime sono state valorizzate quasi esclusivamente come “documento biografico”, e interpretate come “diario intimo” di una donna che aveva votato la propria esistenza alla più distruttiva e totalizzante delle passioni: l’eros.
Il seminario mostrerà come la poetessa abbia, invece, tentato di conseguire un difficile equilibrio tra il recupero dei modelli e la ricerca di una originale cifra stilistica. In particolare, si metteranno a fuoco alcune strategie retoriche utilizzate da Gaspara al fine di costruire il proprio primato morale e ideologico attraverso una personale manipolazione del canone petrarchista. Il discorso poetico si configura così come letterario e sociale, ma non solo. Esso è anche un percorso di agnizione della propria personalità, dei limiti e delle possibilità che la tradizione culturale assimilata offriva alla donna come poetessa. La figura di Collaltino si riduce pertanto a rarefatta tipizzazione dell’amato, incostante e infedele, mentre si staglia nitida la personalità dominante di Gaspara che usa il percorso amoroso per conoscere se stessa e per raccontarsi.
Alessandro Manzoni era stato osservato «di profilo e di scorcio» da Natalia Ginzburg, autrice di un ritratto dello scrittore «confuso nel polverio della vita quotidiana». Nello stesso anno – il 1983 – anche Mario Pomilio rivolgeva la propria attenzione all’uomo dissestato dai lutti familiari nel Natale del 1833. Accanto a loro altri scrittori del secondo Novecento abbracciano don Lisander con uno sguardo empatico o diffidente, obliquo o viscerale, liberandolo dalle incrostazioni scolastiche e da riduttive formule critiche.
Così Manzoni si fa romanzo. Riguadagna carne e sangue, e viene colto nella viva contraddizione di uomo smarrito tra due secoli; di marito appassionato che guarda con sospetto al traviamento delle passioni; di figlio privato dell’accudimento paterno e che da padre a sua volta sperimenta l’inadeguatezza, l’incomprensione, il fallimento; di credente "terribilmente" visitato da Dio, assediato dalla domanda pascaliana sul Dieu caché. Da Sciascia a Bufalino, da Fortini a Levi, le voci degli scrittori restituiscono l’irriducibile garbuglio di un autore inquieto, contribuendo all’emersione di una presenza nascosta nel «nostro più grande romanzo del ’900»(Camilleri).
(26 febbraio 2019)