La locandina
Giovedì 7 febbraio alle 10:30, nel Coro di Notte del Monastero dei Benedettini, Alessandro De Angelis (Università di Messina) presenta il volume di Iride Valenti - ricercatrice nel settore Glottologia e Linguistica del dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania -
Gallicismi nella cultura alimentare della Sicilia, pubblicato dal Centro di Studi filologici e linguistici siciliani (2011).
Alla giornata intervengono Carmelo Crimi, direttore del dipartimento di Scienze Umanistiche, Giovanni Ruffino, presidente del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Salvatore C. Sgroi e Salvatore Trovato, ordinari di Linguistica generale dell'Università di Catania.
Il libro. Gli innesti, gli arricchimenti e le variazioni nel lessico alimentare della Sicilia normanno-sveva e angioina sono studiati come spia di un più generale processo di cambiamento riguardante l'affermazione di nuove strutture socio-economiche di matrice germanica. Quelle stesse che, ormai dal V-VI secolo, le tribù germaniche, divenute il ceto dirigente della nuova Europa, avevano diffuso un po’ dovunque, sia pure con modalità e tempi diversi. Quelle stesse che, ora, fra XI e XIII secolo, i Normanni (e gli Svevi) introdussero anche nell’Italia meridionale e in Sicilia.
Al già variegato e ricco patrimonio della stratificata cultura alimentare isolana, fortemente ancorata al consumo del pane, del vino e dell’olio (alimenti sacri per eccellenza nel panorama religioso cristiano), oltre che di prodotti vegetali, i secoli di predominio normanno, svevo e angioino aggiunsero nuovi elementi legati al modello culturale germanico, incentrato sul consumo di carne, o meglio sul ricorso a una maggiore diversificazione di alimenti carnei, e di prodotti dell’incolto. D’altra parte, fu vero anche il contrario, perché l’interferenza fece i conti con un sistema di conoscenze stabile e radicato che, piuttosto, dalla Sicilia si irradiò sui nuovi venuti.
Di qui, parole siciliane di insospettabile origine galloromanza, come
agneḍḍu "agnello",
vucceri "macellaio" e
vuccirìa antico "macello" ma ormai solo "noto mercato storico di Palermo",
ciavareḍḍu "capretto",
nnugghja "intruglio di interiora",
inizza e
innusa "giovenca",
mèusa "milza",
bbacuni antico "prosciutto",
bbudeḍḍu "budello". Ma anche nomi di prodotti caseari come
furmàggiu "formaggio (stagionato)" e tuma "formaggio fresco non salato"; prestiti venatori come
trizzola "alzavola",
camùsciu "camoscio" e
ddàinu "daino" e l’ittionimo
minusa "pesciolini buoni da friggere", rara parola connessa alla pesca fluviale. E ancora, nell’apicoltura,
vasceḍḍu "arnia" e
brisca "favo".
Nuovi nomi per vecchie cose, è vero, ma anche nuove consuetudini e nuovi modelli culturali: per gli isolani, da una parte, e per i Normanni stessi, dall’altra. Così, quando tra i nomi del pane in Sicilia fecero la loro comparsa, in relazione alla presenza normanna, lessemi di origine germanica e galloromanza come
guasteḍḍa,
muffulettu o
fuazza, l’ingrediente primario rimase sempre il grano (le focacce dei Normanni erano per lo più d’orzo). Pure se lo si chiamò, il grano, (oltre che con l’antico latinismo
lavuri),
frumentu, con evidente prestito galloromanzo o comunque settentrionale. E proprio qui, in Sicilia, i Normanni impararono a gustare il
blanc manger ‘brodetto bianco, biancomangiare’, antica ricetta di matrice araba.
(07 febbraio 2013)