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Il bosco d'amore

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Giovedì 24 febbraio alle 19:30, negli spazi del MAS di Catania, reading di poesie e prose, in occasione della mostra "Isole" di Giuseppe Tomasello

Giovedì 24 febbraio alle 19:30, negli spazi del Mammut Art Space (via San Lorenzo, 20) , in occasione della mostra Isole di Giuseppe Tomasello, Nextl'ink presenta il reading Il bosco d'amore (autori vari). Le voci sono di Rosaria Fallico e poeti vari. L'ingresso è libero.

In occasione del secondo numero Speciale Monografico di Nextl'ink (precisamente il n.8 di febbraio 2011) dal titolo “Il Bosco d'amore”, la redazione, in collaborazione con la direzione del MAS, realizzerà un reading di poesie e prose di diversi poeti e prosatori invitati a dialogare col tema il cui incipit è una delle ultime grandi tele, dal titolo omonimo, del maestro siciliano Renato Guttuso (vedere speciale all'interno del giornale) del quale, l'anno prossimo, si celebrerà il centenario dalla nascita. Inoltre, sono stati invitati anche artisti - pittori e scultori - a livello nazionale a confrontarsi col tema attraverso le proprie ricerche che Nextl'ink renderà visibili e fruibili in occasione di una mostra itinerante di prossima realizzazione.

Adesso, c’è la neve, ma così sarà per sempre vero ciò ch’è facile immaginare senza che nessuno voglia dirlo: non si può abitare fra quelle alte, pungenti siepi di sguardi che non mollano la presa, su uno sfondo perenne di dalie e tulipani, in mezzo al prato che nasconde una palude, nelle radure strette attorno a un fuoco che non può essere acceso a), per un senso di fiducia verso il sole, b), per eccesso di gratitudine alla notte, c), per non immolare neanche un ramo d’albero.
Nessuno, nemmeno le nuvole, le maree accucciate ai loro piedi, le statue che si vedono origliare in primo piano e le ombre, che nessuno vede, gli dèi ulteriori e nemici, che forgiano quesiti quasi tutti irresolubili, i poeti che hanno scritto di loro e per loro e gli sciami d’angeli, che scendono a fondo valle ad ali ripiegate, in assetto variabile dall’alto dei cieli, usandoli, tutti e sette, come toboggan, srotolandoli come vessilli o un arazzo di parole – che, per questo motivo, nessuno ha mai trovato –, qualcuna raschiata dai cartigli che sbavano da paliotti e affreschi svaporati a poco a poco, da pareti e volte e malgrado ciò, divenuti parte del miracolo che non sarà mai l’arte (che, pure, lo rende possibile, reale o credibile), cieli che staccherebbero dagli interruttori e dai ponteggi per offrirli a loro in un serto, una corolla di fiori che, per loro, durano appena l’atto di donarseli o forse, meno ancora, uccisi solo dall’idea di farlo. Loro – pseudonimo di solo tu e io a uso dei profani –, loro potrebbero stare comodamente dentro le nicchie e cavità degli alberi, dentro le buche scavate dalle talpe, nelle tane sfitte dei ghiri, tenere al caldo gli alluci dentro le conchiglie e i gusci delle lumache morte nel frattempo, invece di pretendere un trattamento di favore dai tormenti da cui esigono di essere – in un senso che sempre e soltanto loro intendono – i prediletti, sempre loro, sempre tu e io. E mai, mai quel plurale anonimo, quel collettivo in cui mimetizzarsi, noi, che tingerebbe di modestia ogni pretesa d’essere in due più d’ogni cifra cui sommarli o commisurarli e sembra il frutto di un errore di persona in luogo della duplice unità, che ne sancisce a prezzo del suo fuoco la ripugnanza a moltitudine indistinta o ordinaria collettività, quando lo stesso errore li autorizza solo a andare alla cieca per indovinare (senza neppure nominarli, senza nemmeno conoscerli: nessun altro al mondo, fuor che loro due, sa che si amano) l’uno e l’altra. Questo, perché si sentono gli unici padroni di una grandezza che non ammette di perdersi in dettagli che la smembrino e deroghe che possano svilirne lo splendore e in cui loro sono dappertutto perché nessuno mai li veda ed è fatta, principalmente, di frantumi calcinati, pezzi di colonne e di frontoni, mucidi lavacri e canne asciutte di fontane disseminate in mezzo a erbacce e a roveti fra cui s’aggirano, a loro immagine e somiglianza – cioè, senza riconoscere i propri simili –, torpide testuggini e paguri storditi, bieche salamandre, l’ombra di fenicotteri in volo, leoni pigramente arruffati, colibrì ammaliati da ogni frutto e fagiani inetti; troppi armadilli; pochi pavoni. Loro si tolgono di dosso gli indumenti per scaldare i gelsi e le ginestre mostrando senza paura carni guarnite da piaghe a grandezza naturale, cresciute al chiuso, come perle o allevate a episodi nettamente e territorialmente distinti, portando una lacrima in due nel cavo delle mani (uno spreco, com’è evidente, tenuto conto che, di solito, il pianto non ama fare eccezioni). Loro hanno i fianchi presidiati dalla spina d’una rosa che ha già messo radici nelle caviglie, loro hanno già sofferto tutto anche per chi ha rinunciato a essere come loro, la bellezza non gli fa da scudo, la felicità non è la spada con cui dividere gli altri dopo essersene distaccati decidendo per sé quel che è un obbligo per chiunque altro; tutto gli cade dall’alto come luce o pioggia, ma diventa polvere al loro soffio – perciò, ogni cosa gli toglierebbe il respiro. Loro si riposano ballando (dicono a se stessi), non c’è ironia, in loro, ma l’allegria dà fondo alla tristezza stando ciascuno come un eremita dentro lo sguardo dell’altro, facendo d’ogni pietra il loro altare, d’ogni carezza il loro letto (a lungo ne covò le carni); quel bacio, che tanto gli piace, ha solo spine, per succhiare o impollinare come d’una vendetta il ricordo – il presente non può contenere tutto, il futuro sarà più affollato del loro cuore per essere più avaro del dovuto con chi è grato o generoso anche con quello che ha perduto; tanto, è chiaro, nulla avrà il sapore sopraffino e delicato di quello che non hanno mai gustato, del miele che li stordiva di amarezza. Segnano i beati confini d’ogni gesto i felini accovacciati, un violoncello e il cipresso a muro, i puberi vincastri e i cani malati. Solo per essi hanno un po’ di riconoscenza; degli altri, non s’accorgono nemmeno, per non dargli troppa importanza – omissione che s’impongono per il bene stesso degli sfortunati, nell’interesse degli infelici che non saranno mai come loro, che non saranno mai loro –, se non perché gli piace ricordarsi di provare compassione per darsi un tocco finale di mondanità (come tutti sanno, gli altri non esistono se non in relazione a loro, in funzione e come proiezione della loro generosità, che, per senso dell’unicità e non per importuna modestia, non vuole riconoscenza da nessuno). E non ci sono navi né vascelli frondeggianti di vele come piume al vento, con una tenda o un gazebo o giardini pensili sul ponte per sentirsi a casa anche lì – niente, nemmeno un battello imbandierato di luci in pieno giorno e gagliardetti e drappi per un’edizione tascabile della Patria formato turistico in quattro tappe, scorciatoie comprese, che fanno da copertura a loro, come se la luce stessa non gli facesse da sipario o il sole non ne fosse il messaggero, un loro servile emissario anche quando la neve imbianca le derive dove iniziano manovre diversive... Neanche un U-Boot per silurare gli invasori, per aspettare al sicuro che ripartano caricandosi daccapo sulle some arieti scornati e indomiti cavalli d’un legno su cui deve ancora finire di seccare la resina; niente, per salvare almeno le apparenze; nulla, non volendo alludere a una fuga. Ma (siccome anche il mare è stato da loro graziato mandandolo in vacanza) solo qualche barca sull’orlo d’uno stagno prosciugato anche in questa stagione in cui gelano solo le cose aride; e non una scala, neppure una per scendere in cantina e da lì, sbucare all’aperto da una botola o sporgersi qui da un abbaìno o da un oblò – no, perché dal loro paradiso di fuggiaschi, in cui devono sentirsi bene accette e dunque, indispensabili e perfette, insieme ai vetri rotti, perfino le ragnatele, hanno abolito le soffitte; ed essendo, ormai, il loro regno delle meraviglie nient’altro che un immenso ripostiglio, archi e frecce fanno da sostegno ai filari di pomodori con cui barattano le mele. Ecco perché questo genere di amori non dura in eterno, poco curandosi di climi e di stagioni anime siffatte; e perché da lì si esce solo attraversando (correndo o senza fretta, ma sempre a ritroso) il cannocchiale che serve solo a questo e altro non è che il loro stesso incanto – il più molesto di tutti, il più superbo di tutti. (Rocco Giudice)

(24 febbraio 2011)

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